Negli Stati Uniti è abitudine da un anno e mezzo; in Italia, invece, la possibilità è freschissima, appena atterrata su telefoni, computer e iPad.
Per la gioia dei tecno-entusiasti, e con qualche ragione: la funzione “Reserve” di Google consente infatti a chi ha minima praticità con Internet e un po’ di abitudine a pagare on line di prenotare musei, visite guidate e tour direttamente da Google Maps, dai risultati di una ricerca o dall’assistente vocale.
Nell’arco di qualche anno, probabilmente, il nostro modo di essere turisti cambierà inesorabilmente, grazie a un sistema semplice e modellato su comportamenti che già sono quotidiani, per esempio quando prenotiamo un auto del carsharing: si guarda la cartina, si trova qualcosa di interessante, si clicca e si passa a una maschera attraverso cui comprare i biglietti, scegliendo giorni, orari e altre opzioni disponibili. Last minute, anche quando già si sta congelando o squagliando dal caldo fuori dal museo; oppure con tutta la calma necessaria, con mesi di anticipo, magari dopo aver fatto una ricerca sulle attrazioni da non perdere durante le vacanze.
“Reserve”, insomma, è la fine delle code ai botteghini, ma anche di molte procedure poco fluide sui siti dei singoli operatori: tutto quello che serve sapere è condensato e accessibile, le prenotazioni sono facili da fare.
D’altronde, dominando il settore delle ricerche online e anche quello delle mappe, era ovvio, e forse persino obbligato, che Big G cercasse nuovi modi per inglobare l’utente e anticiparne bisogni e desideri, consolidando il proprio dominio.
Non per niente la funzione Reserve è possibile grazie all’integrazione nel mondo Google di servizi di società già operanti sul mercato: l’unica italiana – anche se controllata dal colosso tedesco del settore turismo TUI DX – è Musement, che è anche una delle sole due aziende europee scelte per completare l’offerta di molti gruppi americani.
L’idea è che le 35 mila esperienze disponibili sul sito di Musement – e col termine esperienze, da cui l’espressione parecchio in voga “turismo esperienziale”, si indicano possibilità che vanno dal tour in bicicletta al giro sul bateaux mouche, passando per i biglietti di un museo o il corso di panificazione – potranno presto tutte essere comprate senza mai abbandonare “l’ambiente Google”, con grande flessibilità e personalizzazione per i singoli.
Al momento, tuttavia, i tecnici di Musement scelgono “cosa caricare, anche grazie a un sistema di intelligenza artificiale e machine learning”, spiega Fabio Zecchini,chief technical officer e cofondatore dell’azienda.
“Se sul sito di Musement esistono 20 diverse proposte per visitare il Colosseo, su Google Maps ne appaiono oggi soltanto un paio, quelle più indicate per le condizioni meteo previste e anche per il tipo di viaggiatori che fino a quel momento ha acquistato il tour”.
Per ogni persona che fa una prenotazione – e a pochi giorni dal lancio si tratta quasi unicamente di statunitensi, già abituati al servizio – Musement può infatti contare su “Analytics e sensori che permettono di sapere quali prodotti sono migliori per quel cliente, che monitorano come funziona il servizio e danno dettagli su orari, date, abitudini: per esempio quanti arrivano alla maschera e non completano il pagamento?”.
Nulla di cui sorprendersi: qualsiasi piattaforma online monitora queste variabili per capire come migliorare l’offerta e aumentare tanto il numero di quelli che atterrano sul sito quanto soprattutto quelli che concludono le operazioni, qualunque esse siano. Al momento, per esempio, il fatto che si possa comprare in una sola valuta (gli euro), con cui molti americani non hanno confidenza, finisce con lo scoraggiarli: arrivati al clou, non concludono.
“Gli unici dati condivisi con noi da Google sono quelli necessari alla transazione, gli altri rimangono nell’ambiente Google”, spiega Zecchini.
Ed è questo forse ciò su cui vale la pena fare una riflessione. Perché se per Musement e simili la partnership col colosso di Mountain View è sicuramente un ampliamento potenzialmente enorme del business(“Ci aspettiamo di vendere esperienze a persone che altrimenti non sarebbero mai arrivate sulla nostra piattaforma”), di cui potrebbero beneficiare anche realtà turistiche minori, fuori dai grandi giri, baciate da improvvisa visibilità sulle mappe e sul motore di ricerca più diffusi al mondo, tutta questa comodità per l’utente un prezzo ce l’ha: la cessione di dati. Altri dati.
All’enorme campionario di informazioni che il colosso di Mountain View ha su di noi – quello che cerchiamo, guardiamo, quanto a lungo, dove andiamo, che tragitti facciamo, dove acquistiamo e molto altro ancora – adesso si somma anche quello che scegliamo da turisti, dove e quando: informazioni di acquisto che finora su enorme scala aveva solo Amazon. E che Big G, come tutti gli altri colossi del web, saprà certamente capitalizzare.
Il risultato è che ancora una volta la scelta data è sempre più quella tra la comodità e lo sfruttamento delle potenzialità dell’Internet evoluto, e il rischio di essere sfruttati noi stessi. Non è cosa da poco. Tanto più se a questa sommiamo l’ipotesi di veder crescere ulteriormente aziende che già oggi chiamiamo per semplicità colossi ma anche sono in realtà aziende-Stato, con impatto su ogni aspetto della nostra vita, frequentemente fuori dalle regolamentazioni. E che tutte le altre aziende, minori e non, non possono che sperare di servire se vogliono crescere e proliferare.